Cosa la F1 può imparare dalla Indy 500... e viceversa
IndyCar e Formula 1. Due mondi paralleli, tanto simili ma tanto diversi. Ciascuno ha le proprie regole, la propria storia ed il proprio futuro. Pregi e difetti di due categorie che avrebbero la possibilità concreta di imparare l’una dall’altra, se solo volessero.
C’è stato un momento, a cavallo degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, in cui Formula 1 ed IndyCar sono state davvero molto vicine. Pensate cosa avrebbe potuto essere la storia del motorsport a livello globale se queste due realtà si fossero fuse in un unico, grande, meraviglioso campionato.
Per diversi motivi – specialmente legati al budget – non si arrivò mai ad un accordo, con le due serie che presero strade e connotazioni diverse sino ad arrivare ai livelli odierni. Da un lato, abbiamo quella che per prestazioni e prestigio è la massima espressione dell’automobilismo a livello planetario, la Formula 1; dall’altro, abbiamo un campionato interessante che fa del marketing la propria vetrina globale, attirando sponsor e visibilità in maniera egregia in giro per il mondo, la IndyCar.
Due facce della stessa medaglia? Bhé, non propriamente. Diciamo, due modi di intendere e comunicare il motorsport in maniera differente, ciascuno con le proprie peculiarità, i propri punti di forza e, inevitabilmente, le proprie debolezze nel confronto diretto.
Il vincitore della Indy500 2021 Helio Castroneves, Meyer Shank Racing Honda
Photo by: Phillip Abbott / Motorsport Images
La IndyCar vanta quella che, a livello di prestigio, è una delle corse più famose, blasonate ed altisonanti del pianeta: la 500 Miglia di Indianapolis. 105 edizioni, oltre 100 anni di storia, un autodromo tra più iconici al mondo, l’Indianapolis Motor Speedway. Una delle corse che tutti i piloti al mondo sognano di vincere, uno dei tre tasselli della Triple Crown insieme alla 24 Ore di Le Mans, ed il Gran Premio di Monaco (o, in alternativa, il Mondiale di F1).
Tracciato capace di calamitare l’attenzione, le speranze e le ossessioni di molti piloti anche contemporanei, la Indy 500 è una corsa fatta da americani per americani. 200 giri del tracciato ad oltre 340 km/h di media, con l’obbligo di andare a sfiorare i muretti per correre ancor più veloci. L’imprevisto e l’incidente sono dietro l’angolo e, anzi, paradossalmente rappresentano uno dei motivi di maggior interesse dello show.
Il vincitore della Indy500 2021, Helio Castroneves, Meyer Shank Racing Honda
Photo by: Michael L. Levitt / Motorsport Images
La Indy 500 è una festa, uno degli eventi sportivi a stelle e strisce più famosi e visti al mondo, con gli spettatori che ogni anno si contano nell’ordine delle centinaia di milioni. La corsa vera e propria – senza contare i test e le qualifiche che iniziano settimane prima della gara vera e propria - è ovviamente il culmine dello show: ha luogo durante il Memorial Day, giornata annuale dedicata dagli USA a celebrare e ricordare i propri caduti in tutte le guerre in cui sono stati coinvolti. Patriottismo, ricordiamocelo sempre. Anzi, qualcosa di più, visto che negli ultimi vent’anni i successi stars and stripes sono stati appena quattro. Si corre per lo spettacolo, si corre per lo show, si corre per il prestigio e per la gloria. Una corsa non realizzata da americani per americani, ma da americani per l’America ed il mondo.
L’aspetto che colpisce maggiormente a chi si approccia per la prima volta alla 500 Miglia è, paradossalmente, più la cornice rispetto al quadro. In condizioni normali, l’impianto dell’Indiana può arrivare ad ospitare 400 mila persone; nell’edizione numero 105 vinta da Castroneves, sono stati staccati 135 mila biglietti. Un record, considerando l’era di pandemia che stiamo vivendo. Forse, qualcosa di più: un messaggio con cui comunicare che, negli USA, la situazione sta tornando alla normalità. Anche a questo, soprattutto a questo, serve lo sport.
Il vincitore della Indy500 2021 Helio Castroneves, Meyer Shank Racing Honda
Photo by: Phillip Abbott / Motorsport Images
Intrisa – anche giustamente – di patriottismo, la 500 Miglia di Indianapolis – come tutti gli eventi che si svolgono su terreno americano – è preceduta dall’inno nazionale oltre che dalla celeberrima frase “Gentlemen, start your engines”. Signori, accendete i motori.
Sono piccoli ma importantissimi segnali di spettacolarizzazione del tutto, che non fanno altro che aumentare l’hype dell’evento, la voglia di assistere a qualcosa di unico. E poco importa se, almeno in questo caso, non abbiamo assistito ad un’edizione spettacolare a livello sportivo. Tutto passa in secondo piano con il sorpasso di Helio Castroneves su Alex Palou per la leadership a due giri dal termine, fattore che consente al brasiliano di artigliare la sua quarta vittoria ad Indy.
È quello che avviene dopo la corsa a generare entusiasmo, gioia e commozione sportiva: Helio, soprannominato “Spider-Man”, si arrampica sulla grata che delimita il tracciato, avvicinandosi al pubblico, quasi a voler celebrare insieme l’evento, condividendo la gioia, cristallizzandone l’istante per sempre. Poco importa che non sia americano: Castroneves è amato per essere vicino alla gente, per non negarsi mai alla stampa e soprattutto ai fan estasianti.
Il vincitore della Indy500 2021 Helio Castroneves, Meyer Shank Racing Honda
Photo by: Michael L. Levitt / Motorsport Images
Quarantasei anni. Quattro successi ad Indy. Un trionfo cesellato nella storia della 500 Miglia.
La IndyCar vive di queste storie perché sa far sognare il pubblico. È questa la chiave per offrire un prodotto di successo in termini di visibilità e, parallelamente, marketing. Incantare, regalare una storia, far avverare l’impossibile. Come il successo di Dan Wheldon del 2011, con l’inglese che approfitta di un errore di Hildebrand all’ultima curva, cogliendo un successo inaspettato quanto leggendario. E che, purtroppo, sarà il suo ultimo prima dell’incidente fatale del 16 ottobre.
Proprio Wheldon stava testando la nuova monoposto realizzata da Dallara e che sarebbe stata utilizzata a partire dalla stagione 2012 sino ad oggi, la DW12. Dallara, infatti, si è garantita il monopolio della categoria a livello di fornitura di telai dal 2007. Questa decisione va ad abbattere sensibilmente i costi, contando che da dieci anni a questa parte la sola modifica è stata l’introduzione dell’aeroscreen nel 2020.
Ciò che va a differenziare le monoposto della IndyCar – oltre agli assetti gestibili dai singoli piloti e team – sono i propulsori: V6 biturbo da 2.2 litri accreditati di una potenza prossima ai 700 CV e alimentati a bioetanolo. Si tratta di un carburante “eco-friendly”, ricavato per l’85% dalla fermentazione del mais e per il restante 15% da benzina tradizionale. Sotto il cofano i team possono optare tra due diverse forniture: Honda e Chevrolet.
Simon Pagenaud, Team Penske Chevrolet
Photo by: Phillip Abbott / Motorsport Images
Discorso simile anche per i pneumatici: monofornitura firmata Firestone che, in occasione delle gare cittadine o su tracciati non ovali, porta due mescole, le classiche hard e soft. Il discorso è differente per gli speedway, dove lì la scelta è univoca, con una sola mescola a disposizione.
Nei pit stop della IndyCar, poi, abbiamo ancora la presenza del rifornimento, data la capacità di 70 litri del serbatoio che, alla 500 Miglia, consente stint di 30-35 giri.
Fatta questa ampia ma doverosa premessa, e posta la conoscenza generale dei regolamenti di Formula 1, è evidente come le differenze tra F1 ed IndyCar siano notevoli. A livello prestazionale, per esempio, le IndyCar girano 12 secondi più lente di una F1 al Circuit of the Americas di Austin, paradossalmente anche più lente di una LMP1. Ma poco importa.
Non è tanto la velocità o la performance raggiunta ad essere sinonimo di prestigio e visibilità, quanto la capacità di saper vendere il prodotto. Di comunicare al mondo – e di conseguenza agli spettatori paganti – quanto possa essere spettacolare ed unico un evento, quanto possa vedersi realizzata la filosofia americana dell’underdog, del pilota lontano dai riflettori, che può raggiungere traguardi inaspettati.
Helio Castroneves, Meyer Shank Racing Honda, si arrampica sulla rete di protezione
Photo by: Jake Galstad / Motorsport Images
È questo che la Formula 1 dovrebbe imparare a fare, tornando ad avvicinare il pubblico non tanto in maniera virtuale quanto fisica. Quanto tempo è passato dalle celebrazioni condivise con la folla da parte di un pilota vincente? Quanto dalle eterne sessioni di autografi dove, dal campione del mondo all’ultimo della griglia, i piloti sono a disposizione dell’anima vera degli eventi: la gente?
Verissimo: non sempre la IndyCar emoziona ad ogni singola gara della stagione. Cosa che, invece, sta avvenendo in Formula 1 negli ultimi periodi. La stabilità regolamentare – al netto del dominio Mercedes – ci ha offerto tuttavia gare emozionanti ed inaspettate. Mettetevi una mano sulla coscienza e pensate al Bahrain 2019, o a Spa e Monza dello stesso anno. O a vari GP del 2020 ed alle prime corse del 2021. Lo spettacolo non manca, al netto delle debite eccezioni.
Questo, però, avviene ad ogni livello agonistico ed in ogni disciplina. C’è sempre e ci sarà sempre la partita o la gara con il risultato già scritto per diversi fattori. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo: il gol al 90’, il sorpasso al Cavatappi, l’errore nel pit stop, la scivolata all’ultimo giro... Il tutto sta nel saper vendere il prodotto, calamitare l’attenzione degli spettatori, far capire loro che – giustamente – sono il cuore pulsante della manifestazione e che, tutto ciò che avviene, ha anche loro come protagonisti.
Be part of Motorsport community
Join the conversationShare Or Save This Story
Top Comments
Iscriviti ed effettua l'accesso a Motorsport.com con il tuo blocco delle pubblicità
Dalla Formula 1 alla MotoGP, raccontiamo direttamente dal paddock perché amiamo il nostro sport, proprio come voi. Per continuare a fornire il nostro giornalismo esperto, il nostro sito web utilizzala pubblicità. Tuttavia, vogliamo darvi l'opportunità di godere di un sito web privo di pubblicità e di continuare a utilizzare il vostro ad-blocker.