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Analisi

Con l'aerodinamico nei segreti della galleria del vento

Con Dialma Zinelli, capo aerodinamico della Dallara, iniziamo un viaggio a puntate nelle professioni nel Motorsport. Chi lavora in galleria del vento e disegna superfici quale formazione deve avere e che cosa fa nel wind tunnel? Entriamo in questo mondo affascinante di cui tanto si parla ma che così poco si conosce. Experis Academy sta per lanciare un Master nel quale trovare tutte le risposte per chi cerca uno sbocco nel campo dell'aerodinamica.

La Galleria del vento Dallara

Dallara

Con questo articolo iniziamo una serie di racconti sulle professioni del Motorsport. La F1 o la MotoGP sono il sogno che molti appassionati di tecnica vorrebbero realizzare. Molti giovani considerano questi mondi come delle realtà lontane, irraggiungibili. In realtà non è così, perché con una corretta formazione è possibile aprirsi delle opportunità di lavoro nel competitivo mondo delle corse.

In questa prima puntata cerchiamo di scoprire chi è l’ingegnere aerodinamico che si dedica al lavoro in galleria del vento. Ci siamo rivolti a Dialma Zinelli, responsabile aerodinamico di Dallara e docente Experis Academy, che nel 2008 è stato insignito del premio di Aerodinamico dell’Anno dalla rivista Race Tech.

L’emiliano dal 1991 è coinvolto in tutti i progetti della Dallara per cui è la persona giusta per farci spiegare come avviene lo sviluppo nel wind tunnel di una macchina che è ancora in fase di progettazione.

“C’è una fase di concept nella quale si cerca di lanciare la palla il più lontano possibile in base alle conoscenze che ciascuna gruppo di lavoro ha sul progetto, l’idea è di spingere i concetti verso soluzioni estreme, con obiettivi sfidanti che possono anche andare in conflitto con altre funzioni”.

“In questa fase non c’è ancora la concretezza o l’organicità di un progetto per cui ognuno è chiamato a dare una proiezione delle specifiche che vorrebbe vedere nel prodotto. Poi ci vuole un buon… direttore di orchestra che vada a coordinare costi, tempi e prestazioni. Perché all’interno di una tempistica e di un budget, che deve essere coerente con le caratteristiche del prodotto e il target di prestazione, si cominciano a mettere assieme i vari input che arrivano dalle varie aree per cominciare a indirizzare il progetto vero e proprio. Questa è una macro introduzione che precede l’attività aerodinamica”.

Come si svolge lo sviluppo aerodinamico, senza analizzare i due livelli estremi che sono la F1 e una categoria entry level?
“La CFD (acronimo di Computational Fluid Dynamics) e’ l’analisi computazionale del moto di un fluido attorno al corpo. Si tratta di una disciplina che ha compiuto passi da gigante negli ultimi anni. È fondamentale non solo nel pre-screening del progetto. C’è una grossissima attività di CFD iniziale perché si indirizzano i macro contenuti del progetto”.

Oggi la galleria del vento serve a validare le soluzioni che sono già state analizzate dal CFD, mentre un tempo tutte le idee dovevano essere analizzate nel wind tunnel con costi e tempi molto più dilatati…
“Il vantaggio di oggi rispetto a 20 anni fa è che se tutto passava dalla galleria con i suoi costi, inevitabilmente si finiva con il non provare tutto quello che si aveva in testa per limiti di budget e tempo, mentre oggi il processo è stato pesantemente compresso grazie anche al CFD che, basandosi su software e hardware in continua evoluzione, è in costante e fortissima crescita”.

“In Dallara abbiamo un’area R&D di ingegneri skillatissimi che hanno per compito quotidiano proprio il miglioramento di hardware e software. Lavoriamo, quindi, con strumenti che sono in continua evoluzione. E stiamo vivendo un periodo storico nel quale la CFD e la galleria sono diventate assolutamente complementari”.

“La galleria mette il timbro al lavoro di sviluppo, mentre la CFD assolve un’indubbia leadership qualitativa. È uno strumento utile nel pre-screening che ti permette di visualizzare il campo di flusso e il fenomeno fisico, che ti fa capire dove hai sbagliato e che ti dà suggerimenti per rimediare all’errore. Il tutto con tempi e costi che non sono comparabili con quelli della galleria che, invece, esprime un’indubbia leadership quantitativa”.

“Quando il progetto della vettura è già indirizzato grazie alla CFD, andare in galleria vuol dire fare efficienza perché si produce una quantità di dati per unità di tempo che la CFD non è ancora in grado di esprimere. La galleria permette di validare e finalizzare tutti gli input che la CFD ha evidenziato”.

Dunque nella sequenza di lavoro c’è prima lo screening della CFD e poi arriva la galleria?
“In realtà stiamo vivendo una fase storica particolare e di indubbio interesse perché si devono mixare nel modo migliore due strumenti che sono molto diversi fra di loro. Il mix che emerge è molto spesso l’indicatore della qualità del progetto almeno dal punto di vista aerodinamico”.

La CFD dipende da un aerodinamico o sono due reparti separati?
“In passato direi di sì, ora no. Il background scolastico ora è prevalentemente numerico. Banalmente per un’università è molto più facile gestire un software e un hardware piuttosto che una galleria del vento”.

“Ai miei tempi la CFD era agli inizi ed era confinata in qualche laboratorio universitario, mentre adesso il discorso numerico parte direttamente e massicciamente dall’ateneo. Oggi un reparto aerodinamico non è più diviso fra sperimentali e numerici”.

“E’ semmai diviso tra sviluppatori di prodotto e sviluppatori di processo, indipendentemente dall’ambito sperimentale o numerico. È più corretto fare questa distinzione, sia pur calando tutto all’interno del progetto”.

Che percorso universitario bisogna fare per entrare in galleria?
“Il percorso più corretto è quello di ingegneria aeronautica con indirizzo aerodinamico. E’ il passaggio più coerente di chi vuole fare questo mestiere”.

La formazione di un aerodinamico quanto tempo richiede a un team?
“C’è una fase iniziale in cui si cerca di unire trasversalità e verticalità. In funzione del background del candidato e della sua futura posizione, lo si affianca poi o agli sviluppatori di processo (Cfd o Galleria), o agli sviluppatori di prodotto. In genere comunque qualche anno di esperienza è una precondizione”.

“In Dallara siamo molto compartimentati, perché molto del lavoro che svolgiamo, circa l’80%, è rivolto a clienti esterni ai quali dobbiamo assicurare l’impermeabilità delle informazioni e la proprietà intellettuale del progetto. Per cui abbiamo team di lavoro dedicati”.

“Il candidato inizialmente avrà mansioni di ridotta responsabilità per imparare e avere l’occhio lungo su cosa fanno i più esperti, per poi coinvolgerlo progressivamente nelle aree decisionali più spinte. Nel giro di cinque anni si forma un aerodinamico che può assumere la responsabilità di un progetto, coordinando il gruppo di lavoro con i disegnatori. Inoltre deve rendere conto al cliente sull’andamento del progetto ed ai vertici dell’azienda per verificare se si rispettano gli obiettivi di budget e di prestazione”.

In quanto tempo si realizza un modello in scala?
“Diciamo 10 settimane lavorative. Si tratta di modelli sempre più complessi. Noi dobbiamo coprire richieste che vanno dall’entry level, alla categoria nobile che è la F1. Ogni progetto va configurato come se si andasse da un concessionario per comprare una vettura: dobbiamo avere la capacità, insieme al cliente, di trovare il miglior compromesso tra complessità e budget del progetto. Non è banale perché si parte dalla scala del modello per arrivare a tutte le componenti di sensoristica”.

Quali materiali si usano?
“Il carbonio si usava dalla seconda metà degli Anni ‘90 fino al 2005, poi ha preso il sopravvento la stampa in 3D e, attualmente, i nostri modelli sono costituiti per l’80% in rapid prototyping”.

“In realtà i costi specifici del processo sono alti, ma si riescono a comprimere i tempi per cui si ottiene un’economia di scala. Si comprime quello che in gergo è chiamato time to test”.

Dopo quanti giorni si riesce a fare una prova di galleria dopo che si è avuta un’idea?
“C’è un ordine di grandezza: quello che prima era un lavoro di due o tre settimane con il carbonio ora è di pochi giorni, il tempo di costruire e assemblare il pezzo per portarlo in galleria”.

“Il tempo dipende più dalla pianificazione che dalla costruzione del pezzo. Inizialmente, nei primi Anni 2000, la stampa 3D ha pagato a caro prezzo alcune criticità come la mancanza di stabilità del materiale, c’era poca stabilità al calore, alla luce, all’umidità: se si lasciavano i pezzi alla luce e cambiavano le temperature, si modificavano le geometrie per cui era il tipico pezzo usa e getta”.

“Adesso questi problemi si stanno superando e, pur sapendo di non aver a che fare con il carbonio che ha una stabilità completamente differente, la stampa 3D garantisce uno standard che fa dormire sonni piu’ tranquilli, tanto più che oggi ci sono degli strumenti di controllo che prima non c’erano”.

Il capo modellista è un ingegnere o un meccanico?
“Ci sono tre figure: da una parte c’è l’aerodinamico e dall’altra il disegnatore che cura le superfici e deve disegnare rapidamente dei body. E poi ci sono i modellisti. Il lavoro di questi ultimi è cambiato molto negli ultimi 30 anni”.

“Il modellista si è evoluto perché era un… mastro Geppetto che col legno marino riusciva a dare le forme. Alle volte ci metteva del suo, magari allontanandosi dai disegni del progetto. Era un artigiano abilissimo con le mani a cui si davano delle centine disegnate al tecnigrafo, e quindi in 2D che diventavano dei pezzi in 3D”.

“Era una fase complessa della realizzazione del modello: il progettista traduceva l’idea che aveva in testa in centine 2D e magari qualche piccolo errore ce lo infilava, il resto ce lo metteva questo mastro Geppetto che, lavorando sulle centine doveva dare forma all’oggetto. Era un mondo romantico e bellissimo. Io non mi pento di essere partito dal tecnigrafo, perché adesso con il CAD, nella generazione delle superfici, è come avere molto pappa fatta".

“Il modellista poi si è evoluto negli anni. Adesso i capi modello hanno alle spalle delle esperienze di pista e devono avere la capacità tecnica di leggere i disegni oltre alla capacità informatica di dialogare con l’ingegnere. Dunque non è un ingegnere, ma comunque un personaggio di alta formazione. Questi ragazzi arrivano dagli istituti professionali ma poi devono maturare dell’esperienza in pista perché gli dà il ritmo che serve in questo tipo di lavoro: nel Motorsport la gara non ti aspetta, ma parte. La pista è una grande maestra per mettere in fila le priorità e darsi le urgenze nel lavoro”.

“Noi facciamo una formazione di reparto per preparare i modellisti ai nostri processi. Di capo modellisti bravi ce ne sono pochi: dopo anni di lavoro arrivano a gestire il modello insieme al progettista per definire i tempi, le priorità e le criticità. I capi modellisti sono una merce rara…”

Abbiamo il modello pronto: quanto tempo ci vuole perché si faccia la prima prova d’aria…
“Non molto, perché ogni prodotto ha una sua configurazione. Le ruote sono per esempio un fattore discriminante nel modello perché fanno la differenza fra il low cost e la medio-alta qualità. La versione low cost non avrà ruote pneumatiche, il modello prestazionale si, con una serie di relative gestioni hw e sw”.

“Una volta costruito il modello e sono passate le dieci settimane che dicevamo, nel giro di una giornata di debug in galleria per mettere a punto la sensoristica o le ruote pneumatiche, si comincia a fare le prove”.

Quanto cambia la sensoristica?
“Di solito i modelli devono avere una bilancia per resistenza, carico e forze laterali oltre ad una serie di trasduttori di pressione. Ci sono una quarantina di prese di pressione su un modello entry level che diventano 200 in un modello medio e oltre 300 per quello top.

Cosa fa la differenza fra un modello di F1 e quello di medio livello?
“Un ordine di grandezza sul costo del prodotto finale e le ragioni di un così forte gap sono tante: scala, complessità dei componenti, qualità delle lavorazioni, elettronica a bordo.

Quindi a seconda di come si deforma la gomma si hanno delle influenza aero proprio come avviene in pista?
“Sì è proprio così, il motivo vero della presenza della ruota pneumatica è lo studio del contact patch, della deformata a terra della gomma e della deformazione della spalla. Ai fini aerodinamici conta di più il contact patch”.

“In galleria si deve garantire pressione e temperature costanti delle gomme perché si va a provare una variabile alla volta. La galleria è uno strumento clinico nel quale si cercano di congelare tutte le variabili per lasciarne una libera che è la geometria che vuoi analizzare”.

“Se per cambiare una pancia del modello ci vogliono 40 minuti è impensabile che la gomma abbia mantenuto costante la temperatura. Nella procedura ci sono diversi sistemi di controllo: può fare sorridere pensare che finita una prova si montino le termo-coperte”.

Quante prove si concretizzano in un giorno?
“I turni sono di otto ore, con la F1 si può lavorare H24. Ogni modello ha i suoi valori tipici di frequenza delle prove, ma siamo intorno alle 2-2,5 configurazioni/ora provate: questo è un valore per una vettura di media complessità”.

Qual è la velocità dell’aria?
“Si passa dai 45 ai 60 m/s, vale a dire a cavallo dei 200 km/h”.

Si effettuano test anche in imbardata?
“In galleria da almeno 20 anni l’imbardata, il rollio e la sterzata fanno parte dello studio aerodinamico. Si è passati dall’assetto fisso a mappe sempre più complesse. La mappa si compone di sotto mappe che analizzano specificatamente il moto rettilineo o il comportamento in imbardata o in frenata. A livello di stabilità aerodinamica ci si gioca tantissimo del prodotto finale. La galleria ha la capacità di produrre una grande quantità di dati in poco tempo”.

“Ogni prova che utilizza una mappa aerodinamica completa dura sette o otto minuti. Conviene sviluppare la mappa completa perché non sono i due minuti di differenza che contano, perché il rischio è di perdere dei dati che potrebbero essere importanti, portando a casa un set di informazioni che è più completo e più robusto. La differenza può farla la complessità della mappa scelta”.

L’automotive segue questi dettami nella ricerca aerodinamica?
“No, in questo campo il Motorsport avrebbe molto da insegnare all’automotive che per lo più effettua l’indagine aerodinamica con un modello 1:1 che viene provato ad assetto costante, perdendo tantissimo nella conoscenza sul movimento della vettura”.

La Dallara, quindi, è un incubatore di know how aerodinamico perché lavora con marchi come Audi, Porsche e Lamborghini e sta imponendo delle logiche di ricerca diverse che si muovono verso le metodologie del Motorsport?
“Il processo che abbiamo maturato in tanti anni nel Racing lo trasferiamo allo sviluppo di tutti i prodotti, dallo stradale ad alte prestazioni fino a quello degli alti volumi di mercato”.

Un aerodinamico è meglio che si faccia un’esperienza in ambito Motorsport prima di approdare all’automotive, per trasferire con sé tutte quelle che sono le esperienze della ricerca in galleria estrema…
“Direi proprio di sì. Il periodo storico richiederebbe un’osmosi fra i due mondi con uno scambio di conoscenze. E del resto in certe aree è generalmente stato l’ingegnere Motorsport che iniettava input al prodotto. Con questo non sto assolutamente banalizzando il mondo della produzione, ma analizzando diversi processi. Concordo col mio amico Walter Da Silva che dice: “Quando guardo una macchina da competizione, mi rendo conto di quanto sia complessa una Polo”, ma a livello aerodinamico io credo che il Motorsport potrebbe supportare l’automotive”.

Dopo l’Università quali passaggi sono consigliati per entrare nel mondo aerodinamico?
“Prima di iniziare la pratica, vale la pena frequentare un Master come quello di Experis Academy che avvicina i giovani interessati a chi l’aerodinamica la vive quotidianamente, uscendo dallo studio teorico fatto sui libri per arrivare alla pratica in galleria del vento, al CFD e al simulatore”.

Siamo passati negli ultimi anni da un’aerodinamica con flussi laminari all’ideazione di vortici che hanno cambiato l’indagine? Una volta con la forma si cercava di modificare l’andamento dell’aria, mentre oggi con i vortici i flussi si possono letteralmente inventare…
“Mi rifaccio alla storia dell’aerodinamica. È cresciuta inizialmente con la sola attenzione alla resistenza: si pensi alle Auto Union o alla Lancia D50 che aveva il serbatoio fra una ruota e l’altra con zero attenzione alla sicurezza, ma intanto si era conseguito il risultato di carenare le ruote. Parliamo di un periodo che è iniziato negli Anni ’30 ed è arrivato fino agli Anni ’60: la vettura era concepita come un sigaro, come un oggetto molto affusolato. La bontà aerodinamica era funzionale alla velocità massima che si riusciva a raggiungere”.

“Poi qualcuno ha cominciato a pensare che su un corpo in moto nell’aria agisce non solo la resistenza, ma c’è anche un’altra forza: è quella verticale che spinge la vettura al suolo. E così siamo arrivati alla fine degli Anni ’60 con l’ala, poi negli anni ’70 con le wing car nell’era dell’effetto suolo. I fondi piatti che seguirono lewing car portarono la F1 ad un’ulteriore esagerazione”.

“Il culmine lo si è raggiunto nel 1994 con vetture tanto critiche aerodinamicamente che c’era un’elettronica al servizio. Ci sono voluti gli incidenti del ’94 per arrivare al fondo scalinato. E allora si è aperta una terza via, quella delle appendici per generare un campo di moto strutturato con vortici”.

Un esempio per esemplificare il concetto?
“Se pensiamo alla Ferrari di Raikkonen del 2007, ci ricordiamo che era un “albero di Natale” come tutte le F1 di quella generazione, in cui l’efficienza si faceva proprio con una vorticosità diffusa nel campo di moto introducendo appendici”.

“Il processo in atto oggi è esattamente quello: adesso non c’è più l’albero di Natale, ma in sostanza si fa uno studio volto ad aumentare il livello di energia sul fondo della vettura. La differenza nella stragrande della maggioranza la fa la qualità del lavoro del fondo”.

“Il top boby non dico che lo si sbagli raramente, ma è anche più difficile commettere errori grossolani, mentre se c’è un problema sul fondo, il più delle volte crea problemi importanti di prestazione e di bilanciamento che sono i primi parametri che il pilota avverte”.

Nell’indagine aerodinamica si cerca solo la prestazione?
“Non è detto, perché ci sono delle categorie in cui non è richiesta solo la prestazione sul giro di pista, ma nel capitolato d’appalto sono aggiunte delle richieste che possono fortemente condizionare il progetto”.

A cosa ci stiamo riferendo?
“L’Indycar, per esempio, impone uno studio per contrastare il decollo delle monoposto. Stiamo parlando di un tema che potrebbe riguardare anche Le Mans. Sia chiaro: tutte le vetture messe a 180 gradi sono portanti, anche la F1, pur se raramente si troverà in tale condizione a una velocità di 250 km/h, perché qualcosa succede prima, incontrando le vie di fuga in ghiaia o le barriere”.

“In Indycar, invece, il problema dell’anti decollo è sensibile, per cui si deve sviluppare un tema aerodinamico ulteriore. Lo studio viene fatto con la macchina a 180 gradi, a 90 e 135 gradi di imbardata, piuttosto che con 5 gradi di muso sollevato”.

“Se per un contatto il muso si alzasse, la perturbazione non deve divergere in un decollo. Questi sono filoni di ricerca bellissimi, sono argomenti nuovi, trattati in CFD. Sempre di aerodinamica e di fisica si parla, non c’è alcuna magia nera”.

“La generazione di Indycar 2012 per esempio aveva delle forme stranissime: queste derivavano proprio dallo studio anti decollo con la vettura a 90 gradi. Raggiunto quell’obiettivo siamo andati in galleria per finalizzare il comportamento della monoposto sul dritto, visto che il contratto ci chiedeva di raggiungere anche le 220 miglia di media ad Indy”.

“Adesso l’Indycar ci impone cinque configurazioni che niente hanno a che vedere con la pura prestazione. In questi casi è fondamentale la CFD per studiare queste situazioni fuori dal consueto inviluppo di moto, ma che sono fondamentali ai fini della sicurezza”.

CFD, Galleria del vento e simulatore quanto sono un triangolo perverso?
“C’è un’interazione continua col simulatore, che è il collettore di input che vengono dagli aerodinamici, dagli ingegneri meccanici, dai dinamici e fa pilotare questa vettura virtuale che non esiste”.

“Tutte le sessioni di galleria e tutti i cicli di CFD aggiornano il modello al simulatore e, quindi, non è più l’aerodinamico che prende la decisione se puntare sulla prestazione o sulla stabilità del veicolo, come avveniva in passato sulla base di scelte soggettive, adesso c’è un simulatore che restituisce un dato tempo sul giro in funzione di una mappa aerodinamica diversa, magari più instabile e più efficiente e viceversa”.

Quando non c’è correlazione dei dati con la pista dipende dalla strada persa in galleria o nel simulatore?
“Quando si parla di correlazione dei dati, che è fondamentale in ambito aerodinamico, si parla di una correlazione con il mondo reale. Non è che la CFD deve correre dietro alla galleria o viceversa. Tu hai due strumenti con i quali devi fare sviluppo e che devono andare d’accordo in primis con il mondo reale, l’aerotest sarà il vero banchmark. Poi c’è anche l’aspetto simulativo di dinamica del veicolo e lì il mondo è anche più complesso”.

Quindi il test zero di galleria dovrebbe combaciare con l’aerotest a velocità costante fatto in pista?
“Assolutamente sì, quando si vedono le F1 opportunamente strumentate con i rake di pressione, piuttosto che con la vernice fluorescente, è per cercare una correlazione con il CFD e la galleria. Quello che rende robusto il lavoro non è tanto quanto è potente il tuo computer o quanto è evoluta la tua galleria, ma è proprio il fatto che ci sia correlazione con il mondo reale, altrimenti ci si racconta una storia diversa”.

La Galleria del vento Dallara
La Galleria del vento Dallara
La Galleria del vento Dallara
La Galleria del vento Dallara - Aerodinamica
Si allestiscono i modelli per la galleria del vento Dallara
I partecipanti del Master di aerodinamica di Experis Academy dello scorso anno nella galleria del vento Dallara
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