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Lewis 100, la storia davanti ai nostri occhi

Ieri in Russia si è scritta una pagina molto importante nella storia della Formula 1. Le cento vittorie di Hamilton certificano il cammino di un pilota ed uno sportivo straordinario, non solo in casco e tuta. Lewis ha alzato l’asticella rispetto a tutti coloro che lo hanno preceduto, fissando nuovi standard attraversando quindici stagioni in cui è stato sempre il numero 1.

Lewis Hamilton, Mercedes W12, primo classificato, prende la vittoria per la gioia della sua squadra

Steve Etherington / Motorsport Images

C’è chi obietterà che i numeri non dicono tutto, ed è vero. Ma l’aritmetica aiuta a tracciare il perimetro di un percorso, e pur non entrando nel merito del peso specifico, definisce una dimensione. Le cento vittorie conquistate in Formula 1 da Lewis Hamilton sono un traguardo semplicemente inimmaginabile nelle logiche di questo sport, a dirlo è la sua stessa storia. Per mettere insieme cento successi bisogna sommare le vittorie ottenute da Fangio, Lauda e Prost, oppure da Senna, Alonso e Stewart. Lasciamo da parte epoche, storie, ma usiamo questo esercizio solo per dare una dimensione: è una cifra immensa.

Per mettere insieme le tre cifre Hamilton ha avuto bisogno di quindici stagioni, dalla prima (quella dell’esordio stellare del 2007) fino al Gran Premio di Russia di ieri, ed in tutte ha lasciato un segno, più o meno profondo. A cavallo di tre decadi il trentaseienne ragazzo di Stevenage ha vinto in ventinove tracciati differenti, in ventidue nazioni, salendo sul gradino più alto del podio cento volte in 281 Gran Premi disputati, una media del 35,6%.

Hamilton è il primo a sapere che non tutte le vittorie sono uguali (limite dalle statistiche), ci sono stati successi eroici, sofferti, sudati, e la lista nel caso di Lewis è lunga. La top-10 per molti addetti ai lavori è Usa 2007, Gran Bretagna e Germania 2008, Cina e Germania 2011, Usa 2012, Bahrain 2014, Germania 2018, Monaco 2019 e Turchia 2020. Molti altri successi sono arrivati in un contesto meno estremo, in cui è bastato fare tutto bene, come in certe fasi della carriera è accaduto a tanti altri campioni del passato.

Da talento purissimo a uomo squadra

Valtteri Bottas, Mercedes, Lewis Hamilton, Mercedes, primo classificato, e il team Mercedes festeggiano la vittoria

Valtteri Bottas, Mercedes, Lewis Hamilton, Mercedes, primo classificato, e il team Mercedes festeggiano la vittoria

Photo by: Steve Etherington / Motorsport Images

Ciò che ha permesso a Hamilton di restare costantemente al vertice nell’arco di quindici stagioni consecutive non è stato solo il talento, base fondamentale emersa in modo inconfutabile nel suo anno d’esordio. Lewis anno dopo anno ha colto l’importanza del lavoro, principalmente su sé stesso, un processo iniziato dopo le prime tre stagioni trascorse in McLaren e sviluppato soprattutto dopo l’approdo in Mercedes. Anno dopo anno ha saputo cogliere l’importanza del gruppo, concetto che ha sviluppato in modo quasi manicale costruendo intorno a sé una squadra di fedelissimi.

Il suo utilizzo della radio durante qualifiche e gara evidenzia un approccio mirato al coinvolgimento totale del team, alla consapevolezza dell’importanza che ricoprono le figure chiave nella carriera di un pilota. Nei weekend di gara non deve trarre in inganno vedere Hamilton lasciare il circuito all’ora di cena, perché se la giornata non è stata delle migliori il tam-tam con gli ingegneri prosegue via whatapp o tramite videochiamate.

Lewis ha costruito le sue cento vittorie non solo in pista, ma con un capillare lavoro che ha radici lontane dagli autodromi messo in atto dopo i primi anni in McLaren, dove era una pedina (importante) di un sistema complesso, nei confronti del quale non aveva potere decisionale. L’arrivo in Mercedes gli ha offerto la possibilità di mettere in chiaro dei punti, di partire da un foglio bianco per creare un gruppo di lavoro più aperto sul quale mettere a disposizione l’esperienza di tutti senza politica e paura di sbagliare.

“Grazie a tutti, ai box e in fabbrica, avete fatto un lavoro fantastico”. Suona più o meno così il team-radio che sentiamo puntualmente ogni volta che Lewis taglia il traguardo da vincitore, e col passare del tempo può sembrare uno spot formale e un po' ruffiano. Non è così. L’aver assistito da spettatore privilegiato ai quattro trionfi Mondiali di Sebastian Vettel e della Red Bull, ha reso ben chiaro a Hamilton che senza un gruppo di lavoro alle spalle nessun pilota può raggiungere gli obiettivi che contano, e la scommessa Mercedes (giudicata una scelta suicida da molto addetti ai lavori, soprattutto britannici) è nata anche dalla voglia di essere il punto fermo di un progetto, ruolo che in McLaren non gli era concesso. E Lewis, ragazzo talentuoso ma con un intelligenza non da meno, ha lavorato per cambiare aria, sapendo che sarebbe stata la decisione più importante della sua carriera.

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Lewis Hamilton, Mercedes W12, primo classificato, prende la bandiera a scacchi

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Photo by: Glenn Dunbar / Motorsport Images

Cento Gran Premi non si vincono solo con il talento, serve un pacchetto completo capace di evolversi, di crescere senza pause attraversando cicli tecnici, cambiamenti di squadra, convivenza con compagni di box diversi tra loro. E poi ci vuole la fame, che deve essere immune alla sindrome da appagamento che colpisce tanti sportivi, soprattutto chi, come Hamilton, ha accumulato presto palmares importanti e guadagni milionari.

Dopo quindici stagioni, 281 Gran Premi, 7 titoli Mondiali, 100 vittorie, 101 pole position e 176 presenze sul podio, il sabato sera di Sochi Hamilton ha lasciato la pista a testa bassa visibilmente innervosito per l’errore commesso in qualifica. Una scena non molto diversa da quella vista il giorno dopo con Lando Norris dopo l’esito deludente della sua gara. I quattordici anni che separano i due all’anagrafe, in questo scenario sono scomparsi.

La Mercedes ha avuto un ruolo importante nel coltivare e tenere viva la motivazione di Hamilton. Aver concesso al sua pilota la possibilità di poter vivere senza i vincoli che gli erano stati posti in McLaren è stato un passaggio fondamentale, che ha consentito a Lewis di combinare la sua vita da pilota con gli interessi che nel tempo ha maturato fuori dalle piste. Senza questa concessione molto probabilmente Hamilton oggi non sarebbe più in Formula 1, e saremmo qui a raccontare una storia diversa e neanche tanto inedita, ovvero un pilota che dopo uno o due titoli Mondiali saluta tutti e volta pagina. Invece il libro è ancora aperto, scrive pagine storiche e non accenna ad annunciare un epilogo che prima o poi arriverà.

Davanti a questa storia fa sorridere sentire ancora dei commenti che puntano ad un’impresa di fatto impossibile, ovvero quella di sminuire ciò che Hamilton ha raggiunto ed ottenuto nella sua carriera attribuendo i suoi traguardi alla ‘fortuna di guidare una Mercedes’. Il presente, purtroppo, viene filtrato da rivalità, bandiere, antipatie, pregiudizi e luoghi comuni. Ma è solo questione di tempo. Le imprese sportive a volte non vengono colte subito per il loro reale valore, devono sedimentare nei ricordi per poi riaffiorare ed essere finalmente apprezzate per ciò che realmente sono. E nel caso di Lewis Hamilton, da apprezzare c’è davvero tanto.

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