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F1: l'America si appassiona ai GP e traina il record di pubblico

I 400 mila spettatori spalmati nel weekend del GP degli Stati Uniti non sono un episodio casuale, ma identificano l'interesse crescente degli statunitensi per la F1. Il Circus a lungo è stato visto come un male da sopportare una volta all'anno, mentre la docuserie di Netflix, Drive to Survive, ha attratto al mondo dei GP un pubblico giovane che ha scoperto la massima categoria dell'automobilismo. Tanto che il promotore vuole tre gare negli USA.

Un razzo fumogeno viene sparato in tribuna

Foto di: Zak Mauger / Motorsport Images

Gli Stati Uniti stanno riscoprendo la Formula 1. Il record di pubblico ad Austin ne è un chiaro esempio: il weekend texano è stato seguito da 400 mila persone che rappresentano un limite che supera di gran lunga il primato precedente che appartiene a Silverstone con 356.000 persone in occasione del GP di Gran Bretagna di quest’anno.

Se i numeri raccolti in Inghilterra nella culla della F1 sono abbastanza scontati, certamente stupisce che siano stati stracciati dal GP degli Stati Uniti di domenica scorsa. Ad Austin, tanto per dare un riferimento statistico, nel 2018 erano stati contati 263.100 spettatori: l’incremento è stato impressionante.

Sebbene la pandemia del COVID non abbia ancora mollato la presa, è bello constatare che ci sia una crescente voglia di F1: a scatenare l’interesse degli yankee pare sia stata Drive to Survive, la serie di Netflix girata nel paddock, che ha mostrato nei diversi episodi dedicati alle singole squadre una F1 verità, senza filtri, permettendo ai personaggi protagonisti, piloti, team manager e tecnici di essere scoperti e apprezzati da un pubblico televisivo che non aveva particolare conoscenza del mondo dei GP.

La docuserie ha bucato un muro che sembrava impenetrabile e l’appuntamento USA è diventato un evento che ha catalizzato anche l’attenzione di numerosi vip del mondo dello spettacolo, dello sport e della moda.

Si tratta di un cambiamento importante, perché il Circus è sempre stato vissuto dagli americani come un qualcosa di avulso dalla loro realtà fatta di NASCAR, Indycar e IMSA, sebbene dal 1950 a oggi le monoposto di F1 abbiano corso negli USA in dieci tracciati diversi e in epoche molto differenti fra di loro.

Il vincitore del GP degli Stati Uniti 1976 James Hunt con la McLaren M23 Cosworth

Il vincitore del GP degli Stati Uniti 1976 James Hunt con la McLaren M23 Cosworth

Photo by: Sutton Images

La pista con maggiore tradizione è Watkins Glen (20 edizioni dei 42 GP degli USA), ma si è corso anche a Long Beach, Phoenix, Riverside, Sebring senza dimenticare le puntate a Detroit, Dallas e Las Vegas. Nell’elenco figura ovviamente Indianapolis, ma nel tempio della 500 Miglia la F1 è sempre stata vista in modo critico, come se fosse un corpo estraneo da sopportare una volta all’anno.

Adesso le cose sembrano cambiare perché l’anno prossimo avremo l’inserimento di Miami nel calendario e da più parti si parla dell’appetito di Las Vegas di tornare nel giro, evitando accuratamente la gara nel parcheggio del Caesars Palace come nel 1981.

Alan Jones con la Williams FW07D precede Gilles Villeneuve, Ferrari 126CK, nel GP di Las Vegas del 1981

Alan Jones con la Williams FW07D precede Gilles Villeneuve, Ferrari 126CK, nel GP di Las Vegas del 1981

Photo by: Ercole Colombo

Il sogno di Bernie Ecclestone è sempre stato quello di portare la F1 a New York: si è trattato di un miraggio che più volte avrebbe dovuto concretizzarsi, ma che mai ha trovato una vera convergenza con la realtà.

L’attuale promoter del campionato, Liberty Media, azienda stelle e strisce capeggiata da John Carl Malone, ha lavorato sodo negli ultimi anni per avvicinare il Circus ai gusti degli americani: un GP non è più solo una gara, ma il weekend si arricchisce di situazione che coinvolgono il pubblico secondo lo stile degli eventi USA.

Le stesse monoposto 2022 a effetto suolo devono sottostare a un regolamento tecnico molto prescrittivo che renderà le vetture molto simili, avvicinandosi ai concetti della Indycar, privilegiando i contenuti spettacolari (la possibilità di creare dei sorpassi) a quelli prettamente tecnici.

È indiscutibile che sia un cambiamento nel DNA della F1 che piace agli americani e Austin ne è stata una chiara dimostrazione. Ma è evidente che non basta all’esplosione finale. Per completare il quadro serve altro ancora. Una squadra riconoscibile e un pilota.

Nikita Mazepin, Haas VF-21

Nikita Mazepin, Haas VF-21

Photo by: Mark Sutton / Motorsport Images

Certo c’è già la Haas, ma al di là della proprietà di Gene, di americano c’è davvero poco nel team che ha base in Gran Bretagna e che realizza la monoposto fra Maranello e Varano de’ Melegari. Tanto più che lo sponsor principale, portato dal papà di Nikita Mazepin, ha imposto i colori della Russia. Non proprio il massimo per un riconoscimento identitario.

Michael Andretti, grazie al supporto di 1001, il colosso assicurativo USA, aveva pianificato l’acquisto delle quote di maggioranza della Sauber, ma l’operazione con Finn Rausing si è incagliata ed è finita. Nella storia non sono mancate le incursioni di team d’Oltreoceano in F1: la Penske ha vinto il GP d’Austria 1976 con John Watson e non si possono dimenticare le presenze di Parnelli, Shadow (poi trasferita in GB), Eagle, Beatrice, Kurtis, Tec Mec e Scarab, ma mai presenze che hanno avuto un peso nella storia del Circus.

John Watson, Penske PC4 Ford , GP d'Austria del 1976

John Watson, Penske PC4 Ford , GP d'Austria del 1976

Photo by: Ercole Colombo

Il figlio di “Piedone” aveva le idee chiare: portare in F1 Colton Herta, il più giovane vincitore Indycar. Herta aveva effettuato una seduta al simulatore di Hinwil e, addirittura avrebbe dovuto guidare nelle FP1 di Austin con l’Alfa Romeo di Kimi Raikkonen. Non se n’è fatto nulla, per cui restano 156 i piloti americani che si sono cimentati nei GP. In 473 presenze hanno conquistato 33 vittorie, 39 pole e 36 giri veloci.

Phil Hill, Ferrari 156 n el 1961

Phil Hill, Ferrari 156 n el 1961

Photo by: Sutton Images

Mario Andretti (Lotus) nel 1978 e Phil Hill (Ferrari) nel 1961 hanno vinto il mondiale piloti a conferma che la scuola USA non si discute.

Sarà interessante, allora, scoprire chi si farà avanti per completare un puzzle americano al quale mancano ancora alcune tessere, sebbene il disegno che si sta formando sia quanto mai chiaro…

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