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Intervista

Thierry Sabine, il ricordo di Marc Ducrocq

30 anni fa se ne andava l'inventore della Parigi-Dakar. Ce lo racconta l'amico, oggi direttore di gara moto

Thierry Sabine

Foto di: Yelles M.C.A.

Il 14 gennaio del 1986 moriva Thierry Sabine. L'inventore della Parigi-Dakar. Alle 9 di sera circa precipitava con il suo elicottero e con lui morivano altre quattro persone. Oggi ricorre il trentennale della sua scomparsa e per ricordarlo, per ripensare a lui e alle sue Dakar durissime e un po' folli, alla sua forza e al suo carisma, ma anche al suo carattere cocciuto abbiamo parlato con Marc Ducrocq che in questa Dakar 2016 è il direttore gara moto. Marc è stato il braccio destro di Thierry per tantissimi anni, ed anche qualche cosa di più. Un appassionato che ha vissuto la Dakar dalle sue fasi iniziali, lasciando poi dopo la morte di Thierry per rientrare poi passando dalla porta delle Federazioni sportive.

Marc, sai che giorno è oggi (alla Dakar si perde completamente l'ordine temporale dei giorni della settimana)?
"No, non lo so...". E quando gli viene risposto che è il 14, lui alza le sopracciglia: "Ah, il 14...era trent'anni fa – dice in un soffio - ma era di sera" aggiunge. "Ho riflettuto l'altra sera dicendomi, devo fare attenzione perchè i giorni passano senza che ce ne rendiamo conto e non volevo che il 14 fosse un giorno come gli altri".

Parlando di Thierry e della sua Dakar potremmo parlare dei cambiamenti di questa gara, ma forse ci vorrebbe un mese intero...
"No invece, ne possiamo parlare. Perchè bisogna pensare che la Dakar si è evoluta con la sua epoca. La società va avanti, progredisce, e la Dakar fa lo stesso. Siamo qui oggi perchè è così. Se noi facessimo una Dakar come era ai tempi di Thierry Sabine oggi rientrando in Francia ASO si troverebbe con un pacco di denunce sulle spalle. La gente si lamenterebbe di non aver ricevuto l'assistenza necessaria, di non aver l'acqua in quel dato momento, o da mangiare in quel posto lì, una prestazione speciale di qualche tipo, polemiche dappertutto e processi interminabili. A quell'epoca non era così ed è per questo che la Dakar è diventata quello che è diventata".

Un tuo ricordo, bello, di Thierry?
"Thierry... - ci pensa un solo istante - quello che aveva e che ora non c'è più...Era...siccome la Dakar era tanto difficile qualche sera lui era quasi spaventato dai concorrenti. Perchè erano furiosi con lui e allora, Thierry sapeva che doveva farli calmare. La mattina dopo arrivavano tutti a denti stretti, i piloti, per il briefing, ed erano arrabbiati, si lamentavano. Allora li chiamava tutti attorno a lui e issandosi in piedi sulla sponda del camion di Africatours cominciava a parlare. Era questione di pochi istanti e i concorrenti sorridevano e si preparavano a partire. Lui li caricava, sapeva prenderli...".

E' per quello che lo chiamavano "Dieu"?
"Questa sua capacità...E' sempre stata una cosa che mi lasciava sconvolto, nel senso positivo. Era folle, impressionante. L'immagine di Thierry era il briefing della mattina, quando parlava di quello che avrebbero visto e gli faceva venire voglia di partire".

Come un profeta...
"Negli anni dopo in tanti hanno fatto i briefing sulla Dakar, ma c'era una grossa differenza. Loro facevano paura ai concorrenti, state attenti qui, state attenti lì, invece Thierry no, faceva venire voglia a chiunque di partire... Era fantastico".

Ma come faceva, qual era il suo segreto?
"E chi lo sa? Faceva venire la voglia, diceva loro che la tappa sarebbe stata difficile, durissima, ma bella, importante e prezioso arrivare fino in fondo. Lui li valorizzava i suoi concorrenti, oggi invece spesso noi li facciamo sentire infantili. E la gente diceva 'io ci voglio arrivare fino a lì', e sapeva motivarli. Per usare un'immagine un po' forte possiamo dire che Thierry si comportava come un generale con i suoi soldati, incredibile perchè lui in realtà era un anti militarista. Ma sulla Dakar ci voleva un generale che arrangia le sue truppe, spiega il piano d'attacco, le fa avanzare, perchè si va in battaglia e carica i suoi soldati. Si comportava proprio così. La Dakar era la sua truppa".

E quando Thierry è venuto a mancare hai mai pensato di prendere il suo posto?
"No, no assolutamente. Io sono sempre stato uno che lavorava dietro le quinte. Era molto molto complicato. Sapevo bene come funzionavano le cose ma mi andava bene restare ancora nell'ombra. E non sarebbe stato legittimo. C'era suo papà che doveva continuare. Gilbert lo ha fatto. All'inizio fece l'errore di prendere Renè Metge – che non era la persona adatta - e poi Vassard per le moto. Alla fine io riuscii a convincere Gilbert a smettere di prendere persone esterne e gestire tre capi nella stessa gara, e di continuare lui, in prima persona. Mi diede retta e continuò a fare lui i briefing, cosa non proprio alla sua altezza, alla mattina, perchè non capiva nulla della gara. E noi facevamo il lavoro dietro. Come ha fatto Castera con Etienne Lavigne, negli ultimi anni, è lo stesso principio. Hai un patron e poi delle persone che lavorano dietro di lui e per lui".

Alla tua prima Dakar, la quarta, del 1982 partisti come volontario?
"Si è vero. Avevo letto un reportage su questa gara e ne ero rimasto ammaliato. Scrissi una lettera alla TSO proponendomi dicendo che avevo la patente per guidare i mezzi pesanti – cosa allora non così comune- e che avevo una buona disponibilità di tempo. Poi ogni tre settimane chiamavo e chiedevo se avevano bisogno. Un giorno hanno davvero avuto bisogno di un autista e allora il suo assistente si è ricordato di me, disse: 'c'è un tipo che ci rompe le scatole tutte le tre settimane e che non smette di chiamare, mi sembra motivato, proviamo a sentirlo'. E così andai lì, mi fecero guidare un pullman pieno di giornalisti per il quale in realtà non avevo neanche la patente e ho lavorato per loro per tre mesi. Infine mi assunsero e diventai un loro stipendiato per 11 anni".

Il tuo primo incontro con Thierry?
"Catastrofico. Arrivai lì e feci anticamera per cinque ore. Perchè lui non c'era, perchè si era dimenticato, perchè...perchè questo era Thierry. Ma io aspettai, perchè tanto il tempo ce l'avevo. E quando arrivò l'incontro durò meno di cinque minuti:
'Sei mai stato in Africa?'
'No'
'Sai guidare il camion?'
'Sì'
'Hai voglia di farlo?'
'Sì'
Mi guardò e mi disse, 'ok, allora parti con noi'".

Arrivati in Africa però le cose cambiarono...
"Esatto, appena arrivati lì lui mi disse Marc, guiderai il pullman dei giornalisti. E io risposi: ma non posso Thierry non ho la patente adatta per farlo. E lui mi rispose, semplicemente: non fa niente tanto mica dovrai guidare in Francia!. Andò tutto bene anche se fu molto complicata la mia prima Dakar. Eravamo in due a darci il cambio alla guida, ma l'altro non era capace e tutti sul bus ne avevano paura. Quindi quando io ero stanco e passavo il volante a lui tutta la gente diceva no, no, lui no, e allora toccava a me di nuovo e non dormivo mai. Guidai notti intere e fu davvero terribile".

E poi passasti alla Federazione Moto?
"Sì, ma questo è avvenuto tanti anni dopo, tanti. Dopo la Dakar. La Federazione francese non voleva dare le licenze a chi lavorava nell'organizzazione di Tso e io però lavoravo già a Dubai, al Desert Challenge; così feci il corso per la licenza lì, negli Emirati Arabi e diventai direttore di gara. Dopo qualche anno, la Francia disse 'va bene, puoi ' e da allora ho la licenza con la Federazione francese".

Quante Dakar hai già fatto?
"In realtà non molte perchè smisi per diversi anni. Ne ho fatte 20. Smisi nel 1993 e ripresi poi nel 2005. Quando ASO acquisto TSO confermò i contratti solo a tre persone: Etienne Lavigne, Marie Hervegault e me. Ma poi cominciarono le discussioni. Dicevano che guadagnavamo troppo, che ci avrebbero abbassato lo stipendio e allora alla fine me ne andai. Poi ho lavorato con Renè Metge, non facile come persona ma uomo molto interessante".

L'ultima domanda, secondo te a Thierry piacerebbe oggi questa Dakar?
"Non è facile spiegare questo concetto. Thierry già allora faceva un sacco di altre cose oltre alla Dakar. Aveva fatto un film con Lelouch, per esempio... lo si vede poco in realtà perchè quando avevano girato non aveva funzionato il sonoro e avrebbero dovuto girarlo di nuovo dopo la Dakar 1986. Ma lui non tornò e così tagliarono l'80 per cento della sua parte. Faceva un sacco di altre cose, aveva però, e me lo disse qualche volta, voglia di smettere con la Dakar. Sentiva già che stava diventando una cosa troppo grande, troppo complicata. Non so se avrebbe continuato. Era un uomo che non poteva certo invecchiare al comando della Dakar. E' inimmaginabile pensare oggi a Thierry, a 60 anni che si arrampica sulla sponda del camion per fare il briefing. No, assolutamente no".

E l'immagine del Profeta, con la sua tuta bianca immacolata, non potrà mai invecchiare, al contrario di questa Dakar che invece, qualche acciacco, comincia a dimostrarlo.

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